“Mostrerò alla Vostra Illustre Signoria ciò che una donna può fare. […] Le opere parleranno da sole”.

 Queste sono le parole dell’artista e grande donna Artemisia Gentileschi in una delle lettere scambiate col mecenate e amico Don Antonio Ruffo. La storia di Artemisia Gentileschi è una storia che può essere raccontata con le parole, ma che ancor di più può essere compresa tramite le sue opere.

Artemisia nasce a Roma l’8 Luglio del 1593 e viene introdotta fin da subito nel mondo dell’arte dal padre pittore Orazio Gentileschi.

Segue le sue orme ed ha l’opportunità di conoscere Caravaggio e apprezzare le sue opere, da cui fa proprio lo stile artistico basato sull’uso della luce. A soli 17 anni concluse la sua prima opera importante “Susanna e i vecchioni” che vede come protagonista una donna, Susanna, sottoposta ad un ricatto umiliante da parte di due vecchi. Quindi già da questo dipinto si può capire il carattere dell’artista, che non si piega ad una posizione di sottomissione così come voleva il mondo in quel periodo.

Il suo coraggio emerge anche dalla corrispondenza avvenuta con Antonio Ruffo, con il quale si confronta e dibatte sul valore delle sue opere, che vengono sistematicamente sottovalutate solo perché prodotte da una donna.  Scrive infatti “il nome di donna fa stare in dubbio finché non si è vista l’opera”. In queste lettere emerge quindi il carattere ribelle di Artemisia, rispetto al ruolo delle donne del tempo.

Una donna così coraggiosa che a seguito di una tragedia personale non stette zitta. A soli 18 anni subì, infatti, lo stupro da parte di un collega amico di famiglia, Agostino Tassi, il quale subito dopo propose un matrimonio riparatore che lei rifiutò.

Il sopruso subito non la indebolì, al contrario decise di denunciare l’accaduto e Tassi subì un processo che durò cinque mesi, mesi in cui Artemisia fu umiliata con visite ginecologiche pubbliche e torturata con lo schiacciamento dei pollici, per accertare che effettivamente la denuncia corrispondesse a verità.

Dopo tutto il dolore, lei uscì vincitrice: Tassi fu condannato a 5 anni di prigione, lasciando però Artemisia profondamente ed eternamente segnata nell’animo. È in questo periodo che dipinse una delle sue opere più famose, Giuditta e Oloferne ispirata all’omonimo capolavoro di Caravaggio. 

Questo dipinto rappresenta la storia di Giuditta, eroina biblica, nel momento in cui sta per recidere la testa di Oloferne, generale assiro. L’opera rappresenta l’aggressività di due figure femminili e viene messo in evidenza il volto contratto dell’uomo con il sangue colante a terra. La scelta di un soggetto in cui la donna prevarica fisicamente l’uomo è probabilmente legata alla vicenda personale di Artemisia, un simbolo di femminilità fiera e indomabile.

Nonostante la sua determinazione a sognare un mondo in cui le donne fossero pari all’uomo, Artemisia fu sempre poco considerata fino al 1916 e non ebbe mai  in vita la fama che le spettava, trascorrendo gli ultimi anni della sua esistenza in precarie condizioni economiche. Negli anni ‘70 divenne il simbolo internazionale del femminismo, venne riconosciuta come figura culto, paradigma della sofferenza, dell’affermazione e dell’indipendenza della donna.

L’esperienza di Artemisia è l’esperienza di tante donne che nel tempo fino ad oggi hanno subito e subiscono ancora violenze, sia fisiche che psicologiche. Il coraggio di Artemisia deve insegnare a tutti noi che c’è sempre la possibilità di andare avanti, di non subire passivamente i soprusi, di chiedere e pretendere giustizia, di coltivare le proprie passioni, come l’arte nel suo caso, indipendentemente dal giudizio altrui.

La violenza subita e gli stereotipi del tempo  non le hanno impedito di essere la grande artista che oggi noi ammiriamo.

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