Prendere in mano la propria vita con Viktor Frankl, Riflessioni su “L’uomo in cerca di senso”

“L’uomo in cerca di senso” è forse tra i libri che hanno avuto l’impatto più forte nel Novecento. Grazie alla sua capacità di far focalizzare le persone sul modo in cui si approcciano alla vita, ha avuto il potere di cambiare positivamente la loro interiorità, permettendo loro di sfruttare a pieno la propria esistenza. Venne pubblicato nel 1946 da Viktor Frankl, uno psichiatra viennese, che, sopravvissuto ai campi di concentramento, decise di scrivere in nove giorni e nove notti delle tesi riguardo una nuova branca della psicologia, fondata sulla riscoperta del significato delle cose che ci accadono: la “logoterapia”. L’utilizzo di molti esempi concreti che descrivono la condizione esistenziale dei prigionieri, rende il libro interessantissimo per chi è affascinato dalla Seconda Guerra Mondiale e desidera conoscere da vicino la vita nei Lager. In generale, la lettura risulta molto stimolante per le riflessioni sulla vita presenti: ai giovani ed in particolare agli adolescenti viene indicata una guida per trovare una direzione, realizzarsi e mettere a frutto le proprie potenzialità. Fino ad oggi il libro ha riscontrato un enorme successo, tanto che sono state vendute dodici milioni di copie in tutto il mondo ed è stato tradotto in ben ventiquattro lingue. Non a caso, infatti, il New York Times lo individuò nel 1991 tra i primi dieci libri che furono in grado di fare la “grande differenza” nella vita delle persone.

Frankl racconta la vita nei campi di concentramento senza nessun filtro, osservando da vicino il comportamento dei prigionieri esposti a trattamenti atroci. Nell’analizzarli, scava a fondo nella psicologia delle persone, riconducendo i loro comportamenti ai meccanismi profondi del funzionamento della psiche. Da ciò scaturisce un’opera accattivante che, tramite diverse immagini, porta alla luce svariate informazioni spiazzanti, che non sarebbero state scoperte senza il suo prezioso contributo. La grande verità a cui Frankl giunge è che ad un uomo può essere sottratto tutto tranne una libertà: quella di poter scegliere il proprio atteggiamento di fronte alle varie circostanze a cui la vita lo sottopone. Egli notò, infatti, che coloro che sopravvivevano alla vita nei Lager erano coloro che avevano una ragione per cui vivere, che avevano la forza di dire sì alla vita nonostante tutte le disgrazie in cui si imbattevano. Questi si sentivano come se avessero dovuto farcela per forza, come se ognuno di loro fosse un “destino” necessario per quello a cui aspiravano: ciò poteva essere, ad esempio, il riabbracciare i propri cari, il rivedere un’ultima volta i luoghi della propria infanzia oppure il portare a termine una missione come, nel caso di Frankl stesso, quella di scrivere un libro che sintetizzasse le esperienze e le osservazioni sulla propria vita.

Questo scenario di persone, che riescono a trovare la forza di andare avanti nonostante la dolorosa esperienza del campo di concentramento, ci fa capire che, quando pensiamo di vivere in un mondo in cui tutto intorno a noi cerca di limitarci o pensiamo di non avere un futuro, dobbiamo ricordarci che rimaniamo sempre gli unici padroni di noi stessi e abbiamo in ogni momento l’arbitrio di scegliere come porci di fronte alle situazioni più difficili. Se crediamo in noi e non ci facciamo condizionare dalle circostanze esterne, possiamo ancora continuare a sperare nei nostri sogni e puntare a realizzarli.

Questo richiede il superare la paura di non farcela di fronte alle difficoltà. Come dice Frankl, se tutto ciò che accade intorno a noi lo ritenessimo necessario e gli attribuissimo un significato, sfrutteremmo le difficoltà in maniera positiva, credendo nel fatto che esse siano necessarie a farci crescere. Infatti, solo confrontandoci con le difficoltà impariamo a tirare fuori le nostre risorse che, altrimenti, rimarrebbero dormienti.

Attribuire un significato alle difficoltà non sarebbe neanche una semplice illusione. Senza sofferenza e ostacoli la nostra vita rimarrebbe piatta e insignificante, senza “trama”, ed è solo tramite fatiche come ad esempio lo studio, che si può dare una forma definita alla propria vita. Se ci ribelliamo costantemente contro ogni cosa, vedendo sempre il male nella società, ci posizioniamo nel caos dell’indeterminato e rimaniamo “nulla”, perché la nostra identità non trova mai lo spazio di affermarsi autonomamente e dipende solo dall’andare contro tutto (in maniera più o meno cosciente). 

Molti dei ragazzi che non riescono a trovare un senso nella vita (nichilisti), finiscono per protestare in opposizione ad essa ed è ciò che si sta manifestando sempre di più nelle contemporanee rivolte contro la struttura e l’organizzazione della società, che viene vista come un nemico e un oppressore. Anche se questo fosse vero, la chiave per uscire dalle sofferenze non è di sicuro quella della lamentela, ma quella della rivoluzione interiore, che deve mirare al miglioramento di sé stessi partendo dall’avere degli obiettivi personali e dal notare il positivo nelle cose che ci circondano.

In un certo senso, la morte dei prigionieri nei Lager a causa del veloce contagio dell’apatia, potrebbe essere paragonata alla condizione di molti ragazzi di oggi, che sacrificano il proprio io potenziale facendosi condizionare dallo stato d’animo e dalle idee di chi li circonda. Se non costruiamo noi stessi negli anni migliori, ma ci perdiamo nell’assecondare problemi generali, perché presi dalla paura di essere privati del nostro futuro, avremo la sicurezza che quel futuro non lo conquisteremo proprio, dato che ci accorgeremo tutto d’un tratto che fino a quel momento non avevamo mai lasciato parlare noi stessi, ma gli ideali di altri attraverso le nostre bocche. Dobbiamo quindi superare l’inquietudine dei nostri tempi e fare spazio anche alla cura interiore di noi stessi, che oggi sembra essere lasciata sempre di più in secondo piano, a favore del godimento, tutto esteriore, di stare dalla parte dei “giusti”, quella dei più.

Per poter criticare le falle nel mondo, dovremmo prima aver curato i maggiori problemi in noi stessi e non possiamo pensare che a diciotto anni siamo già perfetti. Anzi, a diciotto anni sarebbe il momento giusto di accorgersi delle proprie imperfezioni e iniziare a lavorarci su, perché, se vogliamo un mondo migliore, il cambiamento deve partire prima da noi stessi. 

Sebbene sentiamo di protestare per il giusto desiderio del benessere, dobbiamo avere pazienza e cautela e capire che esso non può essere raggiunto se prima non si è trovato un equilibrio interiore, anche perché quando si entra nella massa c’è il rischio di perdere sé stessi e questo non vogliamo che accada. Inoltre, senza questo presupposto di solidità, si continuerà a star male e non si troverà mai una via d’uscita, perché non riusciremo a riconoscere le origini del nostro disagio (conflitti di matrice interiore o che comunque riguardano la nostra circoscritta sfera relazionale), che ci avevano spinto inizialmente a cercare risposte nei problemi del mondo intero, e continueremo a dare la colpa solo ad alcune cause, che di sicuro sono più superficiali e hanno meno importanza di quelle che minano alla formazione della nostra identità.

Purtroppo è difficile per molti non associarsi alla massa, perché come una calamita ci attrae tutti verso di essa, soprattutto quando non abbiamo un’identità. A tutti piace far parte di un gruppo più grande, perché non ti fa sentire solo e ti regala un’immagine di te stesso, dandoti l’illusione di avere uno scopo. Nonostante ciò, dobbiamo conoscere anche il prezzo da pagare per l’omologazione, ovvero quello di vendere il proprio volto e trasformarsi in una di tante particelle, automi inconsapevoli al servizio di ciò che gli altri vogliono per loro. 

Coloro che “sopravvivono” veramente, come nei campi di concentramento, sono solo coloro che hanno un proprio perché, un piano di vita intimo e personale. Essi hanno la capacità di resistere alla tentazione della facile collocazione nella società e di diventare ciò che sono destinati ad essere realmente. Per avere questo privilegio si deve avere speranza e fede in sé stessi e sconfiggere la paura che porta nel rifugio tra i molti. 

Il vantaggio più grande che ne si ricava è la soddisfazione e la pienezza di giovare di cose ottenute tramite  i propri sforzi, che probabilmente è la massima felicità a cui si può puntare, una felicità solida, che poggia le basi sul modo in cui l’individuo decide di gestire sé stesso.  Questo non vuol dire che tutto ciò che riguarda l’estetica o le felicità effimere debba essere completamente rigettato, bensì essi devono essere solo accessori esterni con cui dare colore alla vita, subordinati e gestiti da noi in prima persona.

Questo equilibrio tra caos e ordine lo definirei quasi necessario affinché si possa conoscere il mondo in tutte le sue sfaccettature e non ci si ritiri completamente dalla vita. Se prevalesse il caos, la nostra vita sarebbe banale e la nostra identità sarebbe destinata a crollare con l’avvento dell’età adulta, lasciandoci, un giorno, come se ci fossimo risvegliati da un sogno, in una realtà caotica, senza una strada; se prevalesse l’ordine, saremmo troppo chiusi in noi stessi e, utilizzando tutto il tempo per preparare la vita al meglio, finiremmo per non viverla proprio.

Solo se riusciamo ad essere padroni nello spostamento tra caos e ordine avremo l’opportunità, nella vita, di mettere a frutto i nostri sogni più intimi, di conoscerci fino in fondo e di avere un’individualità unica, che ci aiuti a rimanere noi stessi sempre, mantenendo le radici nella nostra identità, felici e utili per chi ci è intorno.                                                                                                                                              

       Gabriele 5B

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