La crisi della frontiera Bielorussia-Polonia
<<La frontiera è un termometro del mondo>> ha scritto Alessandro Leogrande.
Le temperature al confine tra la Polonia e la Bielorussia si sono raffreddate in una gelida tensione sul punto di esplodere da un momento all’altro come una mina vagante. Ma fino a dove si radicano le radici di questa minaccia latente?
Occorre tornare indietro all’estate scorsa, quando dopo tre consecutivi decenni al potere, il cosiddetto “ultimo dittatore d’Europa” o come il sig. Lukashenko preferisce essere chiamato “Batka” (“paparino”) della Bielorussia, ha annunciato come da copione la sua schiacciante vittoria nelle elezioni d’Agosto. Le proteste, che hanno riempito le piazze di Minsk, hanno messo a dura prova la spietata repressione del presidente bielorusso, che in definitiva è comunque riuscita a mantenerlo al potere.
Tuttavia non è stata altrettanto remissiva la risposta dell’Unione Europea, che, non riconoscendo i risultati delle elezioni perché “né libere, né regolari”, ha inaugurato dall’ottobre 2020 una stagione di pesanti sanzioni contro la Bielorussia. Così quando nel maggio 2021, un volo Ryanair viene dirottato e forzatamente fatto atterrare nella capitale, a Minsk, per consentire la detenzione del giornalista Raman Protosevich dalle autorità bielorusse, l’UE impone ulteriori misure restrittive nei confronti dell’ex Repubblica Sovietica.
D’altra parte Lukashenko, che non deve sicuramente aver gradito la posizione dell’Europa, sa come giocare le sue carte e mira dritto al tallone d’Achille del vecchio continente: quale strategia più efficace per destabilizzare i meccanismi europei, se non la minaccia di alimentare quella stessa crisi migratoria che mantiene in bilico l’Europa da un decennio? Gli stati dell’Unione impallidiscono di fronte all’abile mossa del leader bielorusso, che tentando di seminare vento nei campi della diplomazia europea, fabbrica una vera e propria crisi di migranti, orchestrata da una deliberata strategia: gli annunci pubblicitari delle compagnie aeree degli ultimi mesi hanno spinto migliaia di profughi, per lo più curdi iracheni, siriani ed afghani, verso il vicino stato membro.
Dal canto suo, la Polonia, dove il 53% degli intervistati ad un sondaggio del 2018 disapprovava l’ammissione dei rifugiati, ha prontamente respinto senza vacillamenti il flusso di migranti che bussavano alle porte dell’Europa, innalzando una recinzione di filo spinato, bloccando l’accesso a giornalisti e ONG, e posizionando truppe armate al confine, che, piuttosto che un porto sicuro, rassomiglia a una discarica umana dove i profughi sono abbandonati a sè stessi, in balia dell’ostilità dei due stati.
Futile ogni tentativo di sensibilizzazione da parte dell’UNHCR (Agenzia ONU per i Rifugiati) e dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), così come risulta inutile l’indignazione pubblica, il cui unico frutto si sono rivelate le reazioni securitarie, non abbastanza considerevoli della crisi umanitaria in corso.
Insomma l’Europa è rimasta sotto scacco: intrappolata in un groviglio senza uscita.
Peccato che i protagonisti della vicenda non siano semplici pedine di un’avvincente partita di scacchi, concesse al sacrificio pur di arrivare a scacco matto. Eppure, queste persone sono trattate alla stregua di armi ibride “usa e getta”, utili finché dimenticate al freddo, senza rifugio, risorse, così i loro lamenti: su entrambi i fronti sono stati ascoltati come strumenti di propaganda e allo stesso tempo ignorati, perché loro stessi sono temuti più delle guerre da cui fuggono. Loro stessi hanno pagato lo scotto della trappola tesa, e in molti non sono riusciti a liberarsi. Sono stati divorati nella voragine che si apre tra il mondo di qua e il mondo di là, dove confluisce ogni crepa, ogni incrinatura, ogni divergenza che recide quella distanza irriducibile e sempre più nociva, almeno finché ci impedirà di comprendere.
Giorgia 4A