Se ci si figura la Storia come un tessuto le cui fibre sono ogni vita umana associata ad un dato arco di tempo, allora, con un ulteriore sforzo di immaginazione, possiamo supporre che a fare la storia, la notte del 24 febbraio, siano stati i passi a ritmo di guerra diretti su Kiev quanto lo sbigottimento occidentale di fronte alla riprogrammazione del palinsesto televisivo alla luce “dei recenti avvenimenti”.

È stato un trauma. E non solo perché si è dovuto rinunciare all’evasione serale per un’edizione straordinaria del telegiornale – nascono i primi nostalgici del covid. Ma perché il vocabolo funesto – ad intendersi “guerra” –  era stato bandito da anni di laborioso indottrinamento post-storico e fiducia nella diplomazia, tesi ad eternare il mito della Pax Europaea. Almeno finché – inconsapevoli forse di una plausibile differenza semantica del termine “bluff” per le potenze militari rispetto all’indolenza politica cui siamo soliti – in sostituzione del sonno occidentale è arrivato il suo alterego, l’arma vincente in ogni situazione di crisi nell’età dell’ “ultim’ora”: l’allarmismo. E così mentre in preda agli isterismi, si assalgono i supermercati, il panico dilaga e c’è chi cerca informazione sull’affitto di bunker, lo schiaffo di Putin ci travolge doppiamente. Innanzitutto perché ci coglie impreparati:  una celere rispolverata di geografia e storia ci ha rammentato che non siamo né neutrali né sovrani, che dipendiamo economicamente – su un fronte – e siamo alleati – sull’altro – di chi non ha mai sposato questa nostra “politica civile”, ma specialmente che questa volta la giungla bellica si trova alle porte di Europa. D’altra parte, il conflitto fotografa magistralmente l’immobilismo euro-occidentale ed è al contempo foriero di svolte aleatorie. Nel primo sguazza felicemente la narrazione iper-semplificata che, facendo amarcord di inefficaci lezioni di storia, riduce il conflitto alla furia di un pazzo sanguinario da fermare ad ogni costo.

 

Ma chi debba pagare –  oltre gli Ucraini –  in che modo, e quando, è un mistero irrisolvibile. Mamma America non si sporcherà le mani – almeno non ufficialmente- , sia perché già indaffarata dal fronte indo-pacifico e dalle grane domestiche, sia perché lungi dallo scatenare la terza guerra mondiale. E così ruba il gioco tipicamente euro-occidentale, che generalmente – quando i fronti sono decentemente remoti – ci consente di cavarcela semplicemente applaudendo alle velleità democratiche dall’alto dei nostri comodissimi divani. Nell’immediato spaesamento, l’Europa gioca la carta della guerra economica, un’arma a doppio taglio che non ci risparmia il sanguinamento – quasi come se non ci volessimo azzardare a colpire senza essere colpiti. Non per questo meno pericolosa: non solo per l’inesorabile urto con le bollette, ma anche perché al fuoco sanzionatorio Putin risponde sfoderando il nucleare. Per correre ai ripari dal vento di guerra, l’UE indice un vertice militare e la Germania coglie al volo l’occasione per stanziare 100 miliardi per il riarmo, o meglio l’armamento – misure che forse accolgono l’embrione di una difesa europea.

 

Proprio la questione militare è emblematica della crisi che dilaga in Europa: ciò che fino a ieri era motivo di onore, l’encomiabile penuria di mezzi bellici, si è trasformato in un inane moncone a cui occorre porre rimedio. Pescandoci dal vagheggiamento pacifista in cui eravamo sommersi, e scagliandoci contro l’ineludibile realtà, il conflitto irretisce il tempo orizzontale degli euro-occidentali e riavvolge il nastro a scenari che precedono la cortina di ferro, negli incandescenti colpi e contraccolpi della guerra – termine che i più temono tornerà nel vocabolario della nostra quotidianità.

 

Giorgia 4A

 

 

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