Recensione di “La Teoria del Tutto” (se dici di non aver pianto non ti crediamo)

 

Bisogna essere sinceri: quando ho sentito partire la familiare sigla della Universal Picture, i pregiudizi sostenevano già gran parte della mia valutazione. Appena La teoria del tutto mi è stato consigliato, il primo istinto non è stato dei migliori. Credevo che un film biografico e per di più tragico su un astrofisico vissuto nel 1963 non era proprio ciò di cui avevo bisogno, né ciò che mi interessava. Spendere poi dei soldi su Prime Video per noleggiarlo non mi sembrava un’idea appetibile. Eppure, un po’ per far contenta la persona che me lo aveva raccomandato, un po’ per i pop-corn gratis che mi erano stati promessi, ho ceduto e mi sono ritrovata seduta sul divano pronta a due ore di noia assoluta. 

Ora provate ad immaginare come sia partire con questo presupposto e, dopo nemmeno venti minuti di film, essere talmente tanto coinvolti nella visione da iniziare a ridere, piangere e scherzare con i personaggi: un’inaspettata sorpresa. La musica, le ambientazioni ed i piccoli movimenti degli attori esprimono al meglio quella punta di amaro nella vita di Stephen, costretto in una situazione che gli è evidentemente dolorosa e non congeniale. Ma soprattutto la storia così semplice, eppure veritiera, ha reso quel lasso di tempo un momento spettacolare per l’anima e la vista. Perciò, tanto di cappello a James Marsh, il regista, Anthony McCarten, lo sceneggiatore ed in particolare a Eddie Redmayne, stupendo nel suo ruolo di Stephen Hawking. La teoria del tutto è un titolo pretenzioso, che affascina, così come l’obiettivo di Stephen Hawking: trovare un’unica equazione matematica per spiegare la nascita dell’universo e l’inizio di tutto. In situazioni normali per individuare e dimostrare una teoria con logica e persuasività servirebbe tempo, specialmente per un argomento così complicato: ma Stephen sa di non averne, gli hanno riferito che gli rimangono pochi anni di vita. A lui, che è uno dei migliori studenti, se non addirittura il migliore, dell’Università  di Cambridge; a lui che, con solo poco sforzo, riesce ad ottenere il suo dottorato per lavorare su ciò che gli sta più a cuore, a lui manca  il tempo. Tempo che sì, vuole passare a studiare e scoprire il più possibile, ma che vuole anche vivere con la sua Jane che, nonostante la malattia e i vari problemi legati ad essa, gli resta accanto e, anzi, è proprio lei a convincerlo ad uscire dal guscio che si stava costruendo. Jane e Stephen sono due mondi separati: lei credente e appassionata di letteratura, e in particolare di poesie spagnole del medioevo, lui dottorando in fisica, con una fervida convinzione nella separazione tra scienza e  fede in Dio, nel quale crede ben poco. E forse è proprio per questo che il loro primo sguardo, scambiato in una festa universitaria, si trasforma ben presto in qualcosa di più di una semplice chiacchierata. È certamente rilevante come la bravura dei rispettivi attori ci permetta di immedesimarci al meglio nella storia. Entrambi hanno due modi di vivere la malattia completamente opposti ma non conflittuali. La situazione è di certo pesante e terribilmente difficile, tanto che lo sentiamo anche noi dall’altra parte dello schermo. Tuttavia, facendosi forza l’un l’altro, ed anche grazie all’aiuto dei vari amici e familiari, i problemi non sembrano più così impossibili da superare. 

Possiamo concludere con una citazione: “…il piccoletto ce l’ha fatta”. 

Da quando Stephen si è alzato, da quando ha deciso di non arrendersi alla malattia e di dare  prova del suo coraggio prendendo la propria vita in mano, lui ha vinto.

Nicole 2SINT