di Giuliana P. (3SA – 2019/20)
“ (…) di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.”
È così che Dante ci introduce nel XXVI canto ad uno degli episodi più affascinanti raccontati nell’Inferno della Divina Commedia: l’incontro tra Ulisse e Dante.
Questo canto è dedicato ai consiglieri fraudolenti, cioè coloro che utilizzarono il proprio ingegno non per gli uomini, ma contro gli uomini. Proprio come in vita hanno fatto uso delle loro lingue per offrire cattivi consigli, ora sono costretti a bruciare in lingue di fuoco.
Tra tutte queste fiamme, Dante ne nota una in particolare, con due punte: Ulisse, la punta più alta e Diomede, suo fedele compagno di avventure, la punta più bassa.
Fin da subito rimaniamo stupiti: perché Dante inserisce Ulisse, famoso eroe greco nell’Inferno?
Nonostante l’eroe sia per lo più famoso per l’ideazione del cavallo di Troia, non è quello il motivo principale. Ulisse infatti, una volta scappato dalla maga Circe riesce finalmente a tornare ad Itaca e il racconto di Omero termina qui. Viene poi raccontato da alcuni scrittori latini però, che la sete di conoscenza, il desiderio di scoprire terre inesplorate sono state nell’eroe più forti dell’amore che provava per il figlio, Penelope ed il padre. Ulisse quindi parte di nuovo, seguito dai suoi fedeli compagni, con l’obiettivo di andare oltre le colonne d’Ercole, impresa in cui nessun uomo era riuscito prima.
Proprio un attimo prima di oltrepassare quel confine, Ulisse infuoca gli animi dei suoi amici, attraverso una “orazion picciola” ed attraverso queste parole Ulisse convince i suoi compagni a seguirlo fino alla morte. Infatti, poco dopo aver oltrepassato le colonne d’Ercole, riescono ad intravedere un’altissima montagna nera (il Purgatorio) e subito dopo il mare li inghiotte.
Dio decide di punirli perché si sono spinti troppo oltre: l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, Dio è conoscenza, quindi cercare di raggiungere la perfezione della conoscenza è nella natura dell’uomo, ma sentirsi invincibile, sentirsi Dio è inammissibile.
D’altra parte però Dante mostra una sorta di rispetto per questi condannati. Il loro è un peccato di intelligenza, ed è proprio l’intelligenza a rendere l’uomo tale. Proprio per questo motivo, il canto è diverso da molti tra quelli incontrati fino ad ora e sarà diverso dagli altri che lo seguiranno: non c’è il solito disprezzo e la solita condanna che spesso accompagnano il viaggio di Dante, di fronte ad Ulisse Dante prova un profondo rispetto.
Che l’intelligenza renda uomini Dante l’ha già accennato in un altro canto. Nel canto VII infatti, ci descrive gli avari e i prodighi, due schiere di uomini costretti nello sforzo inutile di spostare dei giganteschi massi proprio come in vita avevano fatto l’inutile sforzo di accumulare o sperperare ricchezze. Ciò che lega questi condannati al discorso sull’intelligenza che rende uomini sono delle osservazioni fatte da Dante:
E io: “Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali”.
Ed elli a me: “Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.”
Virgilio dice a Dante che tra questi condannati ci sono molti uomini di chiesa, anche papi e preti. Allora Dante si meraviglia perchè non ne riesce a riconoscere alcuno. Il suo maestro gli spiega che queste anime hanno perso totalmente la razionalità nella loro vita, divenuta “sconoscente” e proprio per questo ora appaiono differenti. la capacità di conoscere, quindi di agire, e la virtù sono strettamente legati, nel momento in cui si perde una, si perde anche l’altra.
Quindi la mancanza di intelletto ha tolto loro la propria umanità, trasformandoli in altro, rendendoli irriconoscibili.
Possiamo trovare tracce di questo tema dell’intelletto in tutto l’Inferno. I condannati che vengono qui rinchiusi infatti, non vengono più trattati come umani, perché a causa dei peccati che hanno commesso in vita hanno perso la loro umanità prima di perdere il loro corpo.
Ed ecco che nel canto XIII i suicidi, che per follia e mancanza di razionalità hanno rifiutato la vita, vengono trasformati in alberi, la forma più semplice di vita.
Tutti questi elementi, che possiamo riassumere nell’importanza dell’intelletto per l’uomo, vengono inseriti da Dante in pochi versi, nella orazion picciola di Ulisse:
“(..)d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.