di Alessandro M. (4A – 2019/20)

Ci svegliamo al mattino e, appena alzati dal letto, accendiamo il televisore che ci mostra uno spot pubblicitario di biancheria intima Calvin Klein indossata da un modello con un fisico mozzafiato. Andiamo in cucina e ci prepariamo una colazione dietetica. Il desiderio è diventare come lui mentre mangiamo la squallida sbobba. Spegnendo il televisore pensiamo al futuro: i soldi, una moglie bellissima e dei figli. Poi ci vestiamo e ci rechiamo al nostro grigio lavoro. Ci sediamo nella postazione, una tra le migliaia uguali dell’ufficio, in un edificio esattamente identico ai milioni di palazzi della città.
Questo, in misura maggiore o minore, rispecchia ciascuno di noi. Ma davvero vogliamo tutto ciò?
No! È la società in cui viviamo a farci credere che la felicità sia avere un bel fisico, tanti soldi oppure la fama. La realtà è ben diversa. Eppure crediamo davvero nei modelli a cui “pensiamo di dover” aspirare.
È questa una condizione descritta molto bene da Orwell nel romanzo “1984” con il concetto riassunto nel bipensiero. Per bipensiero si intende il reputare contemporaneamente veri due pensieri che sono tra loro opposti. Pertanto significa credere consapevolmente a delle bugie, pur sapendo che sono tali. Nel romanzo è l’elemento necessario per poter sottomettere intellettualmente tutti e inculcare ciò che il Partito e il Grande Fratello vogliono far pensare. Allo stesso modo tutti noi veniamo ogni giorno bombardati sia implicitamente che esplicitamente da informazioni che alle grandi potenze della terra (multinazionali, miliardari, governi…) è utile farci credere, cadendo nella loro trappola anche se nel profondo sappiamo che ciò che dicono sono spesso delle manipolazioni della realtà. Vediamo film e video che mostrano ricchezza e vogliamo essere come i protagonisti di quel film. Ci fanno pensare che avere l’ultimo modello di smartphone ci renderà felici.
Tutte queste menzogne hanno una tremenda conseguenza: l’omologazione. Piano piano tutti noi pur di non essere rifiutati dalla società o dal “gruppetto di amici” assorbiamo questi modelli. È così che si vengono a creare le mode. Tutti coloro che sono ritenuti “fighi” al giorno d’oggi fumano, si vestono con indumenti di marca, hanno lo stesso taglio di capelli e talvolta parlano come dei cavernicoli. Spesso pur di non essere derisi per poi essere esclusi, creiamo una maschera che occulta la nostra vera natura e ci nascondiamo dietro formalismi e modi di rispondere e agire già precostruiti.
Viviamo in una società in cui se si chiede a un ragazzo per strada quali siano le sue passioni risponderà “boh, uscire coi miei fra, il calcetto eeee ba…”. Invece nel passato in una classe di alunni ciascuno aveva la propria passione, talvolta diversa da quella degli altri, ed era proprio questo a renderlo particolare. Ormai quando uno ha tempo libero preferisce sprecarlo invece di impiegarlo per arricchire le sue conoscenze. Siamo di fronte ad un annientamento dell’io, a un crepuscolo di valori…
Tutto ciò è argomento del film “Fight Club”, diretto da David Fincher. Il protagonista all’inizio del film è uno dei tanti prodotti dell’omologazione e della perdita di personalità. Successivamente farà la conoscenza di Tyler Durden, il quale lo porterà a dubitare sulla fondatezza dei valori della società in cui viviamo fino ad arrivare ad un finale del tutto inaspettato e alquanto profondo. Molte citazioni di questo film dette dal protagonista sono piene di spunti interessanti: “Le cose che possiedi alla fine ti possiedono”; “La pubblicità ci fa inseguire le macchine e i vestiti, fare lavori che odiamo per comprare cavolate che non ci servono. Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra né la grande depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la convinzione che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rockstar. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando. E ne abbiamo veramente le pa**e piene”; “Omicidi, crimini, povertà, queste cose non mi spaventano. Quello che mi spaventa sono le celebrità sulle riviste, la televisione con 500 canali, il nome di un tizio sulle mie mutande”.

Per quale motivo qualcuno vorrebbe tutto ciò allora? La risposta è: per il potere. Secondo Orwell in passato il potere era molto fragile dato che non c’era un controllo mentale. La società descritta nelle pagine di “1984”, per certi versi simile alla nostra, ci appare forte e non scalfibile proprio perché i pochi al potere hanno appreso dagli errori del passato, e detengono e deterranno il potere per sempre grazie ad un faticoso sforzo di omologazione della popolazione e controllo delle menti.
Per fortuna, a differenza della società orwelliana, nella nostra ci si può sottrarre a questo perverso meccanismo senza rischiare la morte. Tutto ciò richiede un enorme sforzo dato che fin dalla nascita ci troviamo in questo ingranaggio. Ciascuno di noi deve fare un’accurata introspezione e iniziare a sviluppare un pensiero critico, imparando a questionare e a mettere in dubbio ogni cosa. Probabilmente la via per tutto ciò potrebbe essere studiare, farsi una cultura, leggere libri, esercitare maggiormente l’uso del pensiero, studiare filosofia.
Proprio come l’uomo del mito della caverna platonica, dobbiamo uscire dalla luce artificiale della spelonca e provare a salire in superficie per scoprire in nostro vero io, per poi poter rinascere come fenici. Non è facile. Forse è impossibile data la natura dell’uomo. Ma, come nel titanismo alfieriano e in “1984”, dobbiamo comunque provarci nonostante la sconfitta quasi certa.